Quasi per caso…

L’avventura che vi racconterò inizia quasi per caso, in una freddissima giornata di fine dicembre. Ero uscito per una veleggiata insieme a Giulio quando, all’uscita del porto di Cagliari, ho notato un gruppo di gabbiani che si tuffavano ripetutamente in acqua. Quando i gabbiani insistono in un punto, è il segnale inequivocabile che sotto la superficie ci sono dei predatori in caccia. Non ci ho pensato due volte: senza neanche aspettare di vedere i predatori emergere, sono sceso sotto coperta e ho preso la canna da spinning che tengo sempre a portata di mano: una canna media, non troppo pesante, ideale per pescare pesci serra e piccoli tunnidi.

Sulla barca ho poche esche da spinning, visto che la maggior parte della mia attrezzatura è da traina. Tuttavia, ho trovato una perfetta imitazione di un’acciuga della Caperlan. L’ho collegata velocemente allo snap e mi sono fiondato fuori, in attesa di vedere i predatori. Ho cominciato a scrutare il mare vicino ai gabbiani e, finalmente, ho avvistato dei pesci emergere dolcemente dall’acqua. Una mangianza anomala ma, comunque, una mangianza. Non eravamo lontanissimi, così ho detto a Giulio di fermare la barca appena vicino ai gabbiani, sopravvento. È fondamentale, quando si pesca sulle mangianze, arrestare la barca e lasciarsi scarrocciare vicino ai pesci senza fare rumore con il motore o disturbarli con l’ombra della barca: la posizione ideale è sopravvento, con il sole che non proietti l’ombra sulle prede.

Per un attimo però, ho perso di vista i pesci, come spesso accade in queste situazioni, ma ero certo che fossero lì, e i gabbiani che rimanevano fermi sull’acqua me lo confermavano. All’improvviso, ho notato due schiene emergere dall’acqua: erano loro, grandi e in piena attività, e soprattutto a portata del mio artificiale. Rapidamente, con un lancio preciso, ho fatto arrivare l’esca poco oltre il punto che avevo individuato, per evitare di spaventare i predatori, e ho iniziato un recupero alternato, con strisciate brevi seguite da pause. La pausa è fondamentale perché, nella maggior parte dei casi, i pesci attaccano l’artificiale fermo. E infatti, dopo pochissimi istanti, la canna si è inchiodata: un pesce aveva attaccato la mia esca.

A quel punto è iniziato il vero combattimento. Il pesce è scattato in una fuga violenta, e la frizione, tarata al massimo per le capacità della canna, ha iniziato a urlare senza tregua. Era sicuramente un tunnide, molto probabilmente un alletterato, ed era grosso.

Non potevo fare altro che assecondarlo, cercando di impedirgli di andare sotto la barca, dove la deriva avrebbe potuto spezzare il filo. Per quindici minuti abbiamo lottato senza sosta, con Giulio che mi aiutava gestendo il motore con brevi retromarce alternate a momenti di pausa. Nonostante i miei sforzi, non riuscivo però a dirigere il combattimento come avrei voluto: la canna era troppo leggera, il trecciato da 18 lb e il finale da 0.35 erano decisamente troppo sottili per quel pesce.

Alla fine, quando sembrava ormai prossimo alla superficie, la tensione è svanita. Il trecciato aveva ceduto, sfilacciandosi come un debolissimo filo di cotone. Probabilmente, durante una delle fughe, il pesce era passato vicino al fondo, e il trecciato aveva sfregato contro una roccia. Non c’era nulla da fare: l’attrezzatura era semplicemente inadeguata per un pesce di quelle dimensioni.

Negli ultimi anni, la tendenza nella pesca è stata quella di utilizzare attrezzature sempre più leggere, per rendere il combattimento più emozionante e tecnico. Ma questa esperienza mi ha insegnato che in certe situazioni, avere il giusto equilibrio tra sensibilità e resistenza può fare la differenza tra una cattura memorabile e una storia di “quello che sarebbe potuto essere”.

La seconda possibilità


Il giorno successivo ho deciso di riprovarci. In questi casi, infatti, non bisogna mai perdersi d’animo, ma imparare dagli errori. La sera a casa ho preparato un’attrezzatura decisamente più pesante: una canna da spinning al tonno, un mulinello Penn 6500, imbobinato con un trecciato da 40 lb e un finale dello 0.60. Ho anche allungato il finale a un paio di metri per ridurre il rischio di sfregamenti durante le fasi critiche del combattimento.

Ora non restava che selezionare le esche giuste. In garage ho una cassettina piena di esche, sia artigianali sia commerciali, tutte con armatura passante, che imitano perfettamente alici, sardine e sgombri. Quando combattiamo pesci importanti, ogni elemento, dalle ancorette allo snap, deve essere scelto con attenzione per garantire la massima resistenza. È fondamentale che ogni componente sia proporzionato al pesce che si intende combattere, poiché l’elemento più debole sarà quello che determinerà l’esito della sfida.

Il giorno dopo mi sono rimesso in mare, confidando che i pesci fossero ancora lì. Molte specie, infatti, sono abitudinarie e, quando trovano cibo in abbondanza, tendono a rimanere nello stesso luogo per giorni o settimane. Presentarsi alla stessa ora era quindi essenziale.

Come una fotocopia del giorno precedente, ho ritrovato la mangianza e, al primo lancio, un pesce ha abboccato. Stavolta, però, non c’era storia: l’attrezzatura mi consentiva di combattere alla pari con quel pesce, che apparteneva probabilmente allo stesso banco di quello perso il giorno prima. Nonostante qualche piccola fuga verso la deriva della barca, sono riuscito a gestire molto meglio il combattimento. Con pesci importanti non si può pescare troppo leggeri. Alla fine ho vinto la preda, stimata intorno alla decina di chili, e, non senza qualche difficoltà, sono riuscito a portarla a bordo di Sayonara.

La magia della barca a vela


Avevo ormai raggiunto il limite del pescato consentito e ho deciso allora di godermi la barca a vela e, senza il fastidioso rumore del motore, mi sono spostato dietro la Sella del Diavolo, in un mare cristallino, per pulire il pesce e analizzarne il contenuto dello stomaco. È importantissimo capire cosa mangiano le nostre prede per migliorare la conoscenza dei pesce e di conseguenza la nostra tecnica. Questo esemplare ad esempio, stava cacciando delle piccolissime acciughe. INello stomaco c’era anche un luccio di mare semidigerito, pesce che ho spesso trovato proprio all’uscita del porto di Cagliari, dove gli alletterati stavano appunto cacciando. Inoltre pulire il pesce sul posto consente non solo di eliminare il sangue, migliorando la qualità della carne, ma anche di restituire gli scarti al mare, dove gamberi, granchi e altri pesci se ne ciberanno.

Dopo aver sfilettato il pesce, ho preso una parte della ventresca e mi sono preparato una deliziosa pasta. Con quel piatto ho celebrato una giornata di pesca intensa e appagante, godendomi il caldo sole della Sardegna e il silenzio che solo la barca a vela sa regalare.

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